01 gennaio 2015

ITALIANO VACANTE

Natale a Torino

Ah, già, la cacca dei cani. Non ricordo bene nel resto d'Italia, ma so per certo che a Torino non si usa raccoglierla. A San Salvario, per esempio, già a partire dai primi anni 2000 c'era questa usanza di lasciarla lungo i marciapiedi, così da consentire di pestarla a mo' d'auspicio. Per cui, quando adesso la pesto davanti a casa di mia madre, mi sento totalmente a mio agio. Solo che non vorrei portarla su a casa sua, ché lei è assai meno a proprio agio con la cacca dei cani. Così me la levo dalla scarpa con l'ultimo fazzoletto rimasto. Devo decidere se cercare un cestino o buttare il fazzoletto sporco di cacca sul marciapiede. Penso che lasciarlo sul marciapiede sia un segnale di apprezzamento che il padrone del cane capirà. Invece il fazzoletto mi scivola sulla strada, mer...
Mia madre, come credo altre madri, non ama molto la cacca dei cani, soprattutto quando provi a spalmarla dalla tua scarpa al tappeto dell'ingresso di casa sua. Credo che mia madre non ami l'arte, a dire il vero. Quando ha parcheggiato l'auto sotto casa, qualche giorno fa, un tizio ha deciso di usare la sua carrozzeria per un disegno lungo entrambe le fiancate, senza soluzione di continuità. A lei il disegno non è piaciuto. E a giudicare dalle maledizioni che gli ha lanciato, fossi in lui io non sottovaluterei quelle che lui crede siano solo delle fastidiose emorroidi.
L'apprezzamento per l'arte sulle automobili è così soggettivo che io ho deciso di disfarmi della mia vecchia Punto a metano. Dopo due anni a New York, e senza una macchina, mi sembrava il minimo non possedere più un'auto in Italia. Ho pensato che con ben due settimane di vacanza a Torino, sotto Natale, la cosa più semplice sarebbe stata fare una bella voltura e lasciare la macchina a qualcuno della mia famiglia. Ho pensato. 
All'ufficio del PRA, il Pubblico Registro Automobilistico, c'è un amore vero per i documenti storici e l'archiviazione, lo si intuisce già dal nome. La loro missione è quella di condividere tale amore. Ai proprietari delle auto viene chiesto, giustamente, di ricordarsi che proprietari lo sono per davvero e per questo devono conservare con cura medievale lo sigillo della proprietà loro. Tale sigillo, ovviamente, è privo di valore alcuno se non accompagnato da quello altro documento che Federico Barbarossa se lo sognava: lo documento della identità tua. Povero Federico, manco lo immaginava i secoli che dovettero passare per arrivare allo agognato di Polizia Stato. Così, fiducioso nello Stato di Polizia, che meno spaventoso dello nome suo è, ti rechi allo Registro Pubblico de Li Carri Meccanizzati per trasmettere la proprietà dello mezzo tuo tutta intera a qualcheduno altro. Innanzi allo sguardo torvo dello impiegato costretto a lavorare seduto allo caldo dietro uno vetro lo terzoultimo giorno che precede la celebrazione dello giudeo  fattosi Salvatore della Umanità senza che la Umanità gliene avesse fatto richiesta, cenere spargi sullo capo tuo per avere smarrito lo sigillo. Con modestia fai notare che sei presente in carne ed ossa; che tu e la futura acquirente siete in possesso di documenti d'identità, e pure recenti; che avete almeno con voi il libretto di circolazione; e che, insomma, ci sono tutti gli elementi logici per chiedere la semplice duplicazione del certificato di proprietà. L'impiegato ti guarda e vorrebbe pure insultarti, probabilmente, perché non capisce come tu ti ostini a chiamare Logica la tua e non la Sua. Devi fare denuncia, invece, mica puoi pensare di cavartela davanti a lui in pochi minuti, giusto quelli necessari per cercare dentro allo calcolatore elettronico lo nome tuo. Devi andare al Commissariato di Polizia o dai Carabinieri, dirgli che hai smarrito il tuo certificato di proprietà e tornare al PRA con quel foglio firmato di tuo pugno che dice: "ho smarrito il certificato di proprietà". Punto. Se il tuo obiettivo, quella mattina, era quello di vendere la tua macchina, obiettivo mancato. Se il tuo obiettivo, quel pomeriggio, era quello di stare seduto per un po' in una sala d'aspetto e poi aspettarti che un funzionario di polizia o un appuntato dei carabinieri potessero dare alla storia della tua memoria bacata la stessa dignità che si da ad un furto con scasso o ad una violenza carnale, obbiettivo raggiunto. "Si vede che lei adesso vive a New York. Quello che conta, per i signori del PRA, è ricevere questo foglio con il nostro logo del comando dei carabinieri. E io non faccio altro che scrivere quel che attesta lei". L'appuntato mi racconta d'essere stato a New York, mi dice che gli è piaciuta proprio tanto. Lo scambio di mail e numeri di cellulare è il meno che possiamo fare, e non solo perché ha capito al volo la mia situazione e il mio stupore infantile davanti a quella denuncia. Le vie dell'amicizia, per fortuna, sono infinite. Anche altre vie sono altrettanto infinite, soprattutto tra la progettazione e l'asfalto. Dietro alla nuova stazione di Porta Susa il tempo si sarebbe fermato volentieri se non fosse stato per lo sgarbo che gli ha fatto la nuova sede di Intesa San Paolo, già terminata e con trasloco imminente degli impiegati. Su corso Inghilterra, dopo due anni, non c'è traccia d'avanzamento dei lavori che, almeno da Corso Vittorio (Emanuele II, per i non torinesi) a Piazza Statuto, avrebbero dovuto regalare alla nuova stazione un viale degno di questo nome. Da Piazza Statuto alla Stazione Dora, poi, l'imitazione di Baghdad sotto le bombe è un po' grossolana ma va almeno riconosciuta la buona volontà. Oltre Stazione Dora, e ancora più a nord, non mi sono potuto avventurare, ma la leggenda metropolitana raccontava di un boulevard nuovo di zecca per chi arrivasse in città da Milano e Venezia. Fosse per me, lascerei comunque perdere le zecche. Tra le cifre irrisorie che il Comune dovrebbe incassare da altre necessarie privatizzazioni o svendite o chiamatele come vi pare (a meno di non decuplicare le tasse), e le cifre necessarie per completare i lavori del passante ferroviario, c'è una sproporzione così ridicola che mi chiedo chi veramente riesca ancora credere che Torino possa un giorno avere addirittura una seconda linea di metropolitana. Spassoso. Più facile credere alla moltiplicazione dei pani e dei pesci ai banchi di Porta Palazzo e sperare che davvero a Palazzo di Città non si vada alla bancarotta. Quanto al palazzo dove la banca Intesa San Paolo trasferirà a breve la sua sede torinese, fatico a comprendere l'ostilità di tutti coloro che si sono battuti nel recente passato per impedirne la realizzazione. A parte che, vista l'altezza, non capisco come si faccia chiamarlo grattacielo; non vedo quale scempio abbia portato al panorama della città, nemmeno osservato dal Monte dei Cappuccini, punto dove notoriamente abitano centinaia di migliaia di torinesi poveri i cui altissimi condomini, ora, hanno la visuale oscurata da un palazzo che si trova a qualche chilometro da loro Quel palazzo è solo una copia in scala ridotta del grattacielo del New York Times (e non è una battuta). Sicuramente è isolato, perché con questi chiari di luna nessuno si comprerà i diritti per costruire il suo gemello dirimpettaio. Così come sarà isolato il suo parente più alto che ospiterà la sede della Regione Piemonte davanti alla Stazione Lingotto. C'è il sospetto, poi, che entrambi non si siano allontanati troppo dal modello urbanistico di qualche decennio fa, dove la città attorno al grattacielo moriva di sera allo svuotamento degli uffici. Ma almeno il palazzo di Intesa San Paolo è totalmente integrato sul suo asse urbano, l'unica zona della città che provi ad essere contemporanea e ricordarsi che dopo il barocco la Storia del Mondo è andata avanti lo stesso. Il raddoppio del Politecnico, il viale che lo attraversa e la stessa nuova stazione di Porta Susa ti fanno credere che sia possibile un'altra Torino e non solo quella capace di "restituire" ai cittadini l'ennesima piazza aulica senza anima viva. Immagino che chi tanto abbia odiato i padiglioni in vetro a forma di gianduiotto, che provavano ad ospitare esseri umani, ora sia estasiato all'idea di poter attraversare, in un tardo pomeriggio di dicembre, il deserto di Piazza Solferino per andare a mangiare l'hamburger bollito da Eataly. Davvero, Oscar Farinetti, glielo chiedo supplicandola: faccia qualcosa!! No, non parlo della piazza, ché quella ormai è stata seppellita dalla Soprintendenza all'architettura morta. No, parlo dei panini. L'hamburger non va bollito, si cuoce su una piastra, lo sapeva? Magari lei ora mi risponderà: "certo che lo facciamo sulla piastra, chi si crede d'essere!". Conta poco, mi creda, perché  sembra proprio bollito, e non potrebbe essere altrimenti: sarà pure un vanto farlo senza grasso, ma sa di polpetta bollita. Se voglio la carne magra non mi mangio l'hamburger. Toglierebbe il grasso dal cotechino? Ok, ci siamo capiti. Io amo Eataly da sempre, mi creda, e non mi interessa granché se lei, come dicono, ha legami con gli amici degli amici degli amici degli amici. Buon per lei, a me interessa solo mangiare bene. Quando torno a New York, per esempio, sono contento di sapere che posso venire da voi a comprarmi una mozzarella ben fatta e non come le palle da tennis bianche che ci sono a Brooklyn, fugghedaboutit. Ma la vostra Hamburgeria a Torino, in Piazza Solferino, usa il termine hamburger con tanta leggerezza solo perché non c'è qualcuno che possa venirvi a fare causa. Il fatto che, a parte qualche rarità dalle parti di piazza Vittorio (Veneto, per i non torinesi), nessuno lo sappia cuocere non è una buona scusa. Su, Farinetti, meritano di più anche i torinesi che ancora vivono nella loro città. Pazienza per noi traditori che l'abbiamo lasciata e facciamo le preghiere al dio Toret perché non ci fulmini mentre ci imbarchiamo a Malpensa invece di preferire il volo con scalo dall'ancora più deprimente aeroporto di Caselle.
Troppo breve questa vacanza torinese. Non abbiamo fatto nemmeno un decimo delle cose che avremmo voluto. Pensi, Farinetti, volevo andare anche da Eataly al Lingotto, il Primo, l'Unico, dove il mio cuore e il mio stomaco sono sempre rimasti, in buona compagnia della mia carta di credito. Per la prima volta, o forse non è la prima ma a me, adesso, sembra la primissima, mi sono sentito un vero emigrante. Mi mancano e sempre mi mancheranno famiglia e amici. Ma inizio a sentire che io manco già da troppo tempo "dall'Italia". Non credo di mancare "all'Italia", e ho l'impressione che non fossero proprio saluti di festa gli abbaglianti di quei razzi a quattro ruote che tentavano di superarmi sull'autostrada da Pavia mentre a mia volta ero in fase di sorpasso pure io a 130 all'ora. Quando te ne vai dall'ambiente dove sei sempre vissuto, soprattutto se decidi di andartene e non sei stato costretto da nessuno, fai il primo passo che ti allontanerà per sempre. Quando torni hai delle aspettative ma chi è rimasto non può capirle e, se insisti troppo, puoi passare anche per ingrato. Per un po' i tuoi rapporti con le persone che ti conoscono rimarranno, e ci sarà anche genuino interesse per le tue vicende. Poi, naturalmente, apparirai solo come uno dei tanti che vengono in vacanza nel paese natale. Nulla di nuovo, tanti veri emigranti vivono la stessa situazione e, ovvio, non parlo di quelli che crepano in fondo al mare perché non hanno un conto in banca che li insegue ovunque e affondano con la speranza di una vita migliore. Noi siamo beati, quindici giorni di vacanza possiamo permetterceli, anche se non sono sufficienti per passare del tempo insieme alle persone care o per immaginare di svegliarsi al mattino senza un programma che preveda una coda in qualche ufficio. Vivere a New York, da questo punto di vista, ha un gran pregio: ogni anno ci viene qualcuno che conosci e, fosse anche solo mezza giornata, hai del tempo reale da trascorrere insieme, quello che lascia ricordi e non un semplice saluto.
Quegli abbaglianti sulla Torino-Piacenza non mi stavano solo dicendo di levarmi dalle palle. Ma che ero ormai fuori luogo.

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