03 dicembre 2014

Il regalo [ NYC #40 ]

Alla fine di un trasloco

"Dada, this one! This one!". Il piccoletto mi aspetta davanti alla porta della nostra nuova casa e mi porge il suo piccolo tunnel di plastica. Vuole che giochiamo con il trenino della metropolitana. Non mi sembra disperato quando gli dico semplicemente che non posso. Sono così stanco che non riesco a inventarmi una scusa e nemmeno provo a dirgli che giocheremo più tardi. Cerco solo di non schiantarmi sul pavimento insieme allo scatolone di turno. Quando domenica sera la Ragazza Dai Capelli Rossi mi ha chiesto: "allora, qual è il piano per domani?"; ho risposto senza esitare, secco: "improvvisazione". Non stavo facendo il bullo. Al quinto trasloco in quattro anni, e avendo smesso di tenere il conto di quelli fatti a partire dal 2000, ho imparato una sola regola. Si, programmare è utile, chi lo nega. Ma fare, senza pensarci due volte, quella è la chiave. Non importa quanti scatoloni riempirai o in quanto tempo. Devi partire, così come viene. Devi riempire. Caricare il furgone e andare. Fino all'ultimo minuto utile. Che, nel nostro caso, è l'ora in cui devo riportare il furgone al parcheggio del car sharing. 
All'andata mi ero fatto mezz'ora a piedi per andare a recuperarlo. Un viaggio a parte, come lo è sempre ogni attraversata delle enclave etniche di Brooklyn. Troppo di fretta per fermarmi a provare il latte ai fagioli rossi nella Chinatown sull'Ottava Avenue. Sguardo veloce al volantino attaccato ad un albero: un tizio ha perso la sua macchina fotografica e spera che qualcuno la ritrovi e gliela restituisca. Auguri, davvero. Dopo qualche isolato, anche ad occhi chiusi mi sarei accorto d'essere arrivato a Borough Park. Dalle finestre di una yeshiva sento che un maestro sta cercando di far cantare i suoi piccoli allievi della scuola elementare, in ebraico. Ad occhi chiusi avrei detto: "è una yeshiva". Il cancello del parcheggio del car sharing era aperto e non c'era traccia di quel lucchetto di cui avevo pure la combinazione per aprirlo. Dieci minuti buoni per capire come mettere in moto il furgone, usare la leva del cambio automatico e tentare una retromarcia senza sfasciare le altre auto.
Dopo due giorni mi sembra di aver guidato da sempre un furgone, ben prima della bici con le rotelle. In effetti, il vecchio Nissan Vanette di mio padre non era poi tanto più piccolo. Guardo quante cose sono ancora rimaste nella vecchia casa a Bay Ridge. Poche. Ma servirà comunque un altro giorno. Abbiamo già deciso che non sarà domani, quel giorno. Domani monteremo i letti, ché da due notti dormiamo con i materassi sul pavimento. E inizieremo a svuotare gli scatoloni. E monteremo anche il divano, per svenirci sopra alla fine della giornata. I libri dovranno aspettare, invece, a meno che la libreria non faccia da se. Stasera abbiamo trovato anche qualche minuto per montare le gambe del tavolo. Ieri sera abbiamo preferito cenare in piedi, come si usa ad ogni inaugurazione degna di questo nome. Il piccoletto è già un figlio di questa città: non ha fatto una piega e ha mangiucchiato. Il vero newyorchese, lamentoso e nostalgico di natura, sa quando è il momento di non aprire bocca. Poi, però, quando attacca a lamentarsi, deve spiegare agli altri trecento milioni di suoi compaesani che è il suo modo per dirti che la vita gli piace e non c'è negatività nelle sue parole. Il piccoletto non ha manco bisogno di spiegarsi. Dopo cinque minuti di lamento puro ne seguono cinquanta di esaltazione.
Quando rinasco devo ricordarmi di non fare mai traslochi prima che mio figlio abbia l'età per cucinarsi la pasta da solo, nonché vestirsi e pulirsi il sedere, chiaro. Fare un trasloco quando la mamma è in gravidanza (già fatto) o quando il piccoletto non è ancora quell'amabile adolescente abulico dietro le sue cuffie di musica inascoltabile, vuol dire fare a meno di due braccia, perché quelle sono impegnate a fargli la pasta, a vestirlo e, si, a pulirgli il sedere. Tenuto conto che la mia memoria fa abbastanza schifo già in questa vita, non vedo grandi segni di speranza per la mia rinascita. Così come non vedo speranze per la mia schiena, se non quella di smettere di comprare poltrone che non si smontano e che puoi solo caricarti su testa e spalle.
Due giornate lunghe. Abbiamo già conosciuto i vicini. Uno di loro è venuto a bussare con la sua bimba piccola ieri, gli altri li abbiamo conosciuti per strada. La via è tranquilla. Così, quando passa qualcuno, il saluto agli sconosciuti diventa normale. Mentre stavo scaricando, questa mattina, ho  fatto un cenno col braccio al vicino della casa di fronte alla nostra e sono andato a presentarmi. "Welcome to the block!" è stato il suo saluto, con tanto d'auguri e di soddisfazione perché un'altra famiglia è arrivata in zona. Il suo accento dice che lui è nato e cresciuto a New York e non un trapiantato recente come tanti di noi.
A fine giornata trovo un buco per parcheggiare il furgone. Immagino che nello stesso buco possa entrarci anche una decappottabile, come minimo, e che farebbe la sua figura sotto questa pioggerella che almeno stasera non è più mista al ghiaccio come stamattina. I sensori per la retromarcia sono una conquista per l'umanità tutta, anche quella senza acqua potabile. Passeggio sulle foglie bagnate del marciapiede che costeggia il cimitero di Green-Wood, il nostro nuovo sterminato vicino che da il nome anche al quartiere: Greenwood Heights, senza trattino, però, e con le strade tutte in salita, che a piedi si sentono eccome. Il quartiere, a dire il vero, ha un po' di problemi con il suo nome. Avendo un altro vicino ingombrante, e il quartiere più ambito dai newyorchesi tutti con bimbi in età scolare, Park Slope, talvolta Greenwood Heights viene chiamato anche South Slope. Poco importa, sempre strade in salita devi fare. Quando salgo gli scalini davanti al portone della nostra nuova casa, butto lo sguardo all'orizzonte. Dietro i rami degli alberi senza foglie c'è Lei. Un punto lontano di luce verde. La Statua della Libertà. Sarà pure vero che, alla fine, un newyorchese non ci mette mai piede laggiù. Ma io, per la prima volta, stasera sento che le mie nuove radici stanno finalmente facendosi strada. E quella luce verde è il nostro personalissimo regalo di Natale. 
Welcome to New York. Again.

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