25 giugno 2014

Un marchio di nome Brooklyn [ NYC #33 ]

Prima di iniziare, mi levo subito il dente: l'Italia è fuori dai Mondiali in Brasile. Battuti pure dall'Uruguay. Dice che adesso sarà tempo di ricostruzione. Mah, ci credo poco. La Grande Trasformazione non era iniziata già quattro anni fa, dopo essere andati fuori al primo turno in Sudafrica? Questo sarebbe il risultato finale di quattro anni di esperimenti? Boh, sarò io che non capisco. Ora posso cambiare discorso. In questo momento non capisco nemmeno se il vento stia soffiando da est. Lo sento alle mie spalle ma sento anche la polvere che entra dritta nei miei occhi nonostante gli occhiali da sole. Potrebbe essere la polvere che si solleva dal cementificio oppure quella che arriva dalla fabbrica che stanno smantellando qua davanti. C'è una montagna di rifiuti metallici che, giorno dopo giorno, è diventata alta come la stessa fabbrica che è destinata a scomparire. Poco più in là sta scomparendo, una grande lettera alla volta, anche quello che da più di cinquant'anni era considerato uno dei simboli di Brooklyn: l'insegna della ormai defunta "Kentile Floors", che con il suo amianto avrà lasciato defunti pure lei. Per le migliaia di pendolari giornalieri delle linee F e G della metropolitana, che qui corre su un interminabile viadotto largo quanto un ponte, sarà un mezzo shock non vedere più le singole lettere rosse tenute in piedi dall'enorme impalcatura metallica. Qualcuno ha anche creato un comitato per chiedere che l'insegna non venga smantellata, perché rappresenta la vecchia identità industriale di Gowanus, quartiere noto per ospitare uno dei canali più inquinati di tutti gli Stati Uniti. Non solo l'insegna non svetterà più qui, ma il quartiere è in piena trasformazione. Una delle dimostrazioni di questo cambiamento dal corso all'apparenza inarrestabile, è il terrazzo da cui osservo tutta la scena.

Realizzato sul tetto di "Whole Foods", catena di supermercati presente in tutta America e sinonimo di cibo di qualità e biologico, da qui si possono vedere anche i grattacieli del distretto finanziario di Manhattan. Su questo tetto c'è pure una serra da cui arriva, tra i vari, anche il basilico del nostro pesto. Tutto attorno è ancora pieno di immensi magazzini per lo stoccaggio delle merci. Ma il quartiere, seguendo i tempi della bonifica del canale, nei prossimi anni si preparerà ad accogliere, come già avvenuto nei quartieri più a nord, condomini di lusso, abitati da quelle persone che potranno permettersi di venire a comprare in questo supermercato che rimane comunque un posto spettacolare, poche balle. Brooklyn ha una nuova identità, adesso. Legata al cibo, alla musica indie, ai birrifici, ai coltivatori locali, all'artigianato di nicchia e pure alle tecnologie più innovative. Non si ferma e cerca sempre nuovi quartieri dove espandere il suo modello di città Capitale di tutto ciò che è alternativo all'offerta di massa del mercato tradizionale. Se poi questo modello alternativo, per offrirci i pomodori "local", nasconde lo sfruttamento dei contadini ispanici nelle piccole fattorie biologiche che ormai sono numerose lungo la Valle dell'Hudson (come leggevo ancora oggi su "Dissent Magazine", la rivista per la sinistra amante dell'analisi ipercritica, che non posso non vantarmi di leggere assiduamente); o se crea centinaia di migliaia di persone costrette a lasciare le loro abitazioni, perché non più in grado di pagare affitti resi altissimi dalla trasformazione dei vecchi quartieri popolari e industriali, la cosidetta "gentrification" (di cui credo mai mi stancherò di parlare), poco importa. Il modello alternativo, con i suoi attori, adulatori o semplici fruitori più o meno consapevoli, replica esattamente quello che il modello capitalistico fa da sempre. Solo che usa etichette nuove, morali. "Locale" è una delle etichette preferite. E come potrebbe, peraltro, essere altrimenti se ovunque e comunque nel Mondo si sta affermando il modello delle grandi aree metropolitane che competono tra loro per accaparrarsi risorse tecniche, finanziarie e soprattutto umane limitate; aree capaci, con gli insediamenti delle multinazionali, di rivaleggiare con gli Stati e perfino di oscurarne il loro storico ruolo? Mentre il capitalismo si evolve in questa direzione dove globali sono solo aree locali limitate seppur grandi, il suo modello alternativo lo replica con i pennelli e colori vivaci. La dimensione locale perde la sua naturale connotazione egoistica per assurgere, come avviene nel modello Brooklyn, a sinonimo di qualità della vita. Con il rischio che, senza un minimo di correzione di rotta, solo pochi potranno permettersela, quella vita? Amen. Brooklyn è ormai lanciata e si prepara a correre pure per ospitare, nel 2016, anno di elezioni presidenziali, la Convention Democratica. Perché l'essere democratici, nell'accezione che va da San Francisco a Tokio passando per Roma, trova qui, nel "borough" più popoloso della più grande città americana, una delle sue realizzazioni più concrete, palpabili e, sicuramente, la più efficace da promuovere a livello globale, perché il successo di Brooklyn è già un marchio per il marketing globale. E giusto stamane l'amministrazione cittadina ha presentato su Youtube il video promozionale che spiega perché nella città di New York, che accogliendo tutte le culture e nazionalità possibili non ha eguali al Mondo, Brooklyn sia il luogo naturale dove ospitare la Convention che proclamerà il candidato democratico alla Presidenza del Stati Uniti. Il Barclays Center, la casa dei Nets nell'area in piena crescita verticale di Atlantic Yards, dovrebbe essere il luogo deputato per riunire i democratici e lanciarli alla difficile difesa della Casa Bianca. Chi voglia vedere l'influenza che (anche) il mondo della finanza esercita sulla politica, a partire dalla casualità del nome del palazzo dello sport dove si chiuderà la lunga stagione delle primarie, si accomodi.
Ovviamente, pur se in tono più dimesso e nel nostro banale vivere quotidiano di piccola famiglia, anche noi siamo ben partecipi di questa contraddizione che comunque non è solo newyorchese, e facciamo ben poco per cambiarne il corso o provare almeno ad alleviarne i costi sociali sopportati dai più emarginati, per non parlare dei costi ambientali. Ci sguazziamo come tanti, dentro la contraddizione, a qualunque latitudine del globo, perché diventa faticoso pensare in termini più complessi e poi provare ad agire di conseguenza per cambiare direzione. La realtà è maledettamente complessa. Allora è più facile, per tanti, dichiararsi rivoluzionari utilizzando la propria bacheca di Facebook, lo stesso mezzo che il "nemico" ci mette a disposizione; oppure sdegnare Bill Gates per adulare, a giorni alterni, Apple o Google o Uber, non volendo vedere nemmeno lontanamente quanto siano pervasivi e incidano molto di più sulle nostre vite, e le nostre presunte libertà, di quanto non facesse un signore che, alla fin fine, ci obbligava poi solo ad usare il suo foglio di calcolo (a dir la verità, quaggiù in tanti vedono, tra le contraddizioni del capitalismo tradizionale e poi quelle della romantica alternativa, anche le contraddizioni legate al modello di sviluppo proposto dalla Silicon Valley, sino alle ultime idealizzazioni sulla cosiddetta "sharing economy", e provano almeno ad elaborare un pensiero critico, che chissà quando si tradurrà però in strategia e reazione; non capisco ancora, invece, se la stessa sensibilità stia arrivando in Italia e cosa potrebbe produrre in concreto). Insomma, è più facile stare seduto su questo terrazzo a Gowanus, pensare alla disfatta della Nazionale italiana, vedere il bruco industriale di New York che sta diventando la farfalla "dalla fattoria alla tavola" e poi scendere a fare la spesa al supermercato, che chiedersi come mai lì sotto i cassieri siano solo afro-americani. Ma io voglio illudermi di potermi lo stesso elevare a un rango diverso dalla massa acritica: ho già anche la risposta alla mia domanda e a quella risposta mi fermo, ci mancherebbe altro.
Lasciandomi Gowanus alla spalle, con le borse della mia spesa biologica sorprendentemente a buon mercato, e scendendo verso sud in direzione Bay Ridge, lungo la stessa Terza Avenue dove si trova "Whole Foods", la trasformazione di Brooklyn sembra una roba ancora ben di la da venire. La grande autostrada sopraelevata taglierà ancora per decenni Sunset Park, iniettando gas di scarico nel quartiere. E, nonostante si attenda l'arrivo del grande complesso dove si alleneranno i Nets del miliardario russo che si è comprato il suo pezzo di pallacanestro NBA, ci vorrà tempo per veder scomparire le sagome dei magazzini e delle vecchie fabbriche. Qualcuna si è riconvertita, seguendo il destino del nuovo parco industriale o della domanda di spazi per conservare quello che in un microscopico appartamento newyorchese ti puoi scordare di tenere con te per tutto l'anno. Qualcun altra, a giudicare dalle insegne, è rimasta identica a se stessa, come quella che sforna tubi di metallo o quella dove i cinesi cuciono vestiti. L'imponente carcere, ospitato in un complesso che mi ricorda tanto il Lingotto di Torino, non si muoverà nemmeno lui. Da qualche parcheggio si potrà di sicuro ancora vedere la Statua della Libertà e le vecchie navi ancorate a Red Hook. Forse rimarranno anche le officine dei carrozzieri, con le vecchie Lincoln degli anni '70 impolverate dagli anni '70 e i personaggi da film che ci girano attorno, a meno che qualcuno non faccia brillare la sopraelevata e vieti per sempre in città la circolazione alle automobili che non siano taxi gialli o verde chiaro. Se poi vicino all'ospedale luterano sulla Seconda Avenue scomparisse la pizzeria di cui si intravede a malapena la scritta sulla tenda annerita dallo smog decennale, credo che pochi ne sentirebbero la mancanza. Si, in questa area di magazzini e vecchi complessi industriali, ora c'è spazio per un ospedale che si sta allargando sempre più e produce, come tutti gli altri ospedali e centri sanitari, una fetta impressionante del ricchezza complessiva di questo Paese, a costi stratosferici. Ma questo è un altro discorso, serve tempo per liquidarlo.
La brezza pomeridiana odierna non consente ai sacchi della spazzatura lungo la strada di sprigionare l'odore tipico di tutta New York, la puzza che ci accompagnerà quando arriverà l'afa e si fermerà per settimane. Nell'attesa, per niente spasmodica a esser sinceri, che arrivino in commercio i telefoni capaci di trasmettere e replicare gli odori, così come visti l'altra sera in tv su MSNBC, il mio canale preferito e quello più a sinistra di tutti, cammino a passo deciso e inspiro profondamente. Voglio godermi la puzza del legno finto. Magari si dice così anche in inglese, vai a sapere. Ma la grande insegna dice proprio "Formica Masonite". Questa insegna qui, provo a scommettere, non la sposteranno.

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